Londonderry

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Saturday, June 20, 2009

«Non ho scritto un sequel. Ma Holden è anche mio»



INTERVISTA. Parla Fredrik Colting, lo svedese portato in tribunale da Salinger per il suo “Sessant'anni dopo”, che ritrae un vecchio Holden in ospizio. «Una mossa folle. L'arte deve essere di tutti». Non è stata una furbata commerciale? «Falso, la mia storia è unica». E una sorpresa: «A Salinger preferisco sempre Moravia».

Se voleva provocare un putiferio mediatico, John David California, pseudonimo yankee dello scrittore umoristico svedese Fredrik Colting, ci è riuscito benissimo. Il suo 60 Years Later - Coming Through the Rye, sequel più che annunciato del Giovane Holden di Jerome David Salinger, ha risvegliato dal torpore l'anziano scrittore americano. Che, nonostante viva da decenni in reclusione totale nella sua casetta di Cornish - un paesucolo di mille abitanti dello stato del New Hampshire - ha fatto sentire la sua profonda voce, portando Colting in tribunale. Perché lo svedese avrebbe usato per il suo libro i protagonisti di The Catcher in the Rye (intraducibile titolo originale del capolavoro di formazione di Salinger), pur non detenendone alcun diritto.
Per adesso Salinger ha vinto. Due giorni fa la Corte distrettuale di New York ha bloccato temporaneamente la pubblicazione dell'opera di Colting, prevista negli Stati Uniti per settembre, per verificare se il caso rientra nel vituperato principio del “fair use”, del “giusto utilizzo”. 60 Years Later, infatti, presenta un Holden Caulfield ultrasettantenne ed incartapecorito. Che, invece di scappare dal collegio - come narrava Salinger -, va via dall'ospizio. Incipit che, come il resto del libro, non è stato molto gradito dallo scrittore americano.
Ma cosa ne pensa di tutto questo Fredrik Colting alias California? Il Riformista ha raggiunto l'uomo, ad oggi, probabilmente più odiato da Salinger.

Mr. Colting, prima di tutto, perché il soprannome John David California? Le piace così tanto l'America?
No, il mio nickname non c'entra nulla con l'America e Salinger. Semplicemente, mi piace come suona, non c'è alcun significato nascosto in esso. Utilizzo due nomi perché, oltre ad essere scrittore, sono anche un editore, tendo sempre a differenziare le mie professioni.

Quando ha letto “Il giovane Holden” per la prima volta? E come è nata l'idea di farne un sequel?
L'ho letto a scuola, avevo quindici anni se non ricordo male. Ma, e qui devo sfatare un mito oramai mondiale, il mio libro non è un sequel.

Però, scusi, dal titolo il suo libro sembra proprio un sequel...
Sì, è vero, ma la sua trama, seppur utilizzi personaggi del Giovane Holden, non costituisce un vero e proprio seguito, perché la storia non si concentra su Caulfield diventato anziano. Il mio 60 Years Later è composto da ben 25 personaggi, quasi totalmente inventati da me. Tra questi, ci sono anche Holden, la sorella Phoebe, il fratellino Allie (già morto nel romanzo dell'americano, ndr) e Salinger stesso.

Salinger stesso?
Sì. Nel mio libro Salinger morirà presto e lotta con i suoi personaggi, invecchiati con lui - uno scenario che, tuttavia, avrei potuto descrivere con qualsiasi altro scrittore. Si parla di cosa hanno fatto dagli anni del romanzo ai nostri tempi, con lo scrittore e Holden su tutti. In 60 Years Later Salinger vuole uccidere i suoi personaggi, perché sono diventati troppo famosi per i suoi gusti, come lui. Perciò, vuole farli fuori tutti per portarseli con sé nella tomba.

Mentre lei, Mr. Colting, vuole portarla in tribunale...
Non capisco perché Salinger abbia intentato una causa simile. Secondo me 60 Years Later non l'ha letto neanche. Il suo giovane agente deve aver spulciato qualcosa del mio libro, mentre era in vendita in Inghilterra (dove lo è stato per una settimana e poi è stato ritirato dal mercato per le beghe legali, ndr), e deve averlo convinto a fare questa mossa folle. Del resto come ha mai potuto comprarlo se se ne sta sempre chiuso in casa? Ad ogni modo, sono ottimista. Tra due settimane dovremmo ripubblicare il libro nel Regno Unito, mentre anche per gli Usa, credo che in autunno non ci saranno problemi. In Italia c'è già qualche editore che vuole tradurlo, ma il mio agente non mi ha detto quali.

E che risponde a coloro che sostengono che la sua è stata solo una mossa commerciale?
Che si sbagliano. Il mio libro è totalmente diverso da quello di Salinger, è una storia unica. Io dico di leggerlo prima, ma il 99% di quelli che mi criticano non l'ha neanche letto il libro. Ovvio che sono stato ispirato da Salinger, ma qui giace il significato dell'arte. Gli artisti possono prendere spunto l'uno dall'altro se non copiano spudoratamente. Le storie di detective e noir, in questo caso, sono emblematiche. Perché in questi casi non si dice nulla? Eppure la bellezza dell'arte è proprio questa.

Che ne pensa delle attuali leggi sul copyright? Tra l'altro il suo paese, la Svezia, è la patria del caso Private Bay e anche del primo parlamentare “pirata” Ue.
Le attuali leggi non sono adeguate ai tempi che corrono. Il mondo e i suoi prodotti, veri o realistici, appartengono a tutti, non si può avere un copyright su ogni cosa. Certo un compenso minimo per gli artisti è necessario, altrimenti noi scrittori non potremmo vivere del nostro lavoro. Ma d'altra parte tutti dovrebbero avere accesso all'arte come informazione libera, senza restrizioni di sorta. Ma è un equilibrio difficilissimo da trovare, l'unico ago della bilancia dovrebbe essere il common sense, il senso comune, di addetti ai lavori e fruitori.

A proposito di addetti ai lavori, quali sono i suoi colleghi scrittori preferiti? Immagino che Salinger occupi un posto di riguardo nelle sue classifiche personali...
Ma vede, mica tanto! Voglio dire, Salinger mi piace moltissimo, ma non è in cima alla lista dei miei favoriti. Preferisco altri, in particolar modo Haruki Murakami e Alberto Moravia.

Ma lei che è svedese, che ne pensa del fenomeno Larsson e del filone noir nordico che impazza in tutto il mondo?
Ah, non penso nulla. A me il suo genere non piace. E non ho mai letto niente di simile.

Antonello Guerrera

Da Il Riformista, 19/06/09

Sunday, June 14, 2009

Mino Raiola, l'ex pizzaiolo mangia calcio

DA NOCERA A MONACO. La sua agenzia di compra-vendita ha sfornato operazioni d’oro per i suoi assistiti Nedved, Ibrahimovic, Maxwell e tutti gli altri campioni o meteore. Parla sei lingue, «l’italiano peggio». Ma, grazie a metodi di scuola Moggi, quando c’è da trattare lo capiscono tutti. E spesso obbediscono.


Stadio Olimpico di Torino, 31 maggio 2009. In campo ci sono la Juventus dell'ex traghettatore - poi allenatore full-time - Ciro Ferrara e la Lazio del sempre più ex mister Delio Rossi per l'ultima giornata di Serie A. La posta in palio del match è vacua. I biancocelesti, freschi bardati di Coppa Italia, sono in Uefa e tranquilli a metà classifica. La Vecchia Signora si è guadagnata la qualificazione diretta in Champions League sette giorni prima. La partita finisce 2-0 per la Juve grazie a una doppietta del sempre più decisivo Iaquinta.
In verità, Juve-Lazio vale più di quel che sembra. È l'ultima del campione ceco Pavel Nedved su un campo di calcio. Tanto che, a fine partita, l'ex Pallone d'Oro biondo platino di Cheb viene osannato dai paganti e dai compagni di squadra per il suo addio al calcio. Lacrime, abbracci e assordanti fanfare di «grazie» tingono di cupa tristezza il cielo di Torino - nell'attesa che il neoacquisto Diego possa schiarirlo.
Ma la festa, un po' come accaduto la settimana prima a Paolo Maldini, viene rovinata. Mino Raiola, il procuratore di Nedved, dichiara alla stampa pochi minuti dopo il commiato del popolo juventino al ceco: «Fra dieci giorni comincerà a stufarsi e vorrà riprendere a correre. Fino al primo settembre cercherò di piazzarlo nelle migliori squadre del mondo». Un fulmine a cielo già rabbuiato per i tifosi bianconeri, che stentano a credere alle rivelazioni del procuratore.
Pavel non ha mai smaltito la delusione di aver mancato la sua unica finale di Champions League. Quella del 2003 all'Old Trafford di Manchester contro il Milan, sfuggitagli per un inutile fallo sull'inglese McManaman nella semifinale di ritorno contro il Real Madrid, a risultato già acquisito. Un costante rimorso che, probabilmente, lo spingerebbe a sgobbare per un'altra stagione, pur di prendersi la rivincita. Ciononostante, non è la prima volta che Nedved, ma forse sarebbe meglio dire Raiola, punta i piedi alla Juve. Qualche anno fa lo bramava intensamente l'Inter di Mancini. Nella circostanza, a contratto del ceco in scadenza, Raiola strappò alla neodirigenza Juve la modica cifra di 3,8 milioni di euro l'anno per il rinnovo dell'ala trentacinquenne.
Un grande colpo per Carmine "Mino" Raiola, 41enne di Nocera Inferiore, fedelissimo della precedente Juve di Luciano Moggi. Ma arrivare a tali vette calcistiche non è stato un gioco da ragazzi. Appena nato, Mino si trasferisce con la famiglia dalla Campania ad Haarlem. Haarlem non il quartiere afro-black di New York (che comunque sfoggia una "a" in meno), bensì la piccola cittadina olandese a 20 km ad ovest di Amsterdam. Dove fa il pizzaiolo nel ristorante di famiglia. Un business redditizio, visto che i Raiola, dopo poco tempo, aprono un'altra decina di locali. Gli olandesi chiamano Mino «mangia-spaghetti», lui ribatte con «mangia-patate». Capiranno presto che il mangia-spaghetti di Nocera non s'intende solo di cucina italiana.
Raiola, infatti, entra nella dirigenza della squadra dell'Haarlem a 18 anni. Di lì comincia a frequentare i locali di Amsterdam colmi di giovani calciatori da assistere. Che questo sia il mestiere del futuro, Raiola lo capisce subito. La legge Bosman del 1995, che liberalizza la circolazione dei calciatori, ne sarà la conferma.
Il primo contatto con la Serie A è con il Napoli del corregionale Ferlaino. Raiola ha sotto mano una giovane promessa olandese, un certo Dennis Bergkamp. Per due miliardi di lire l'affare si può fare e il presidente partenopeo ha la parola del pizzaiolo olandese. Ma Raiola fiuta un affare migliore e si rimangia tutto. Bergkamp finisce all'Inter per 20 miliardi. L'amore tra Mino e Napoli sfiorisce prima del nascere.
Raiola, però, sa bene che nell'Italia anni 90, con la Serie A molto più appetibile di oggi, ci sono le uova d'oro. Oltre a Bergkamp, i primi contatti si materializzano con l'Udinese per il trio Genaux-Walem-Amoroso e con il Foggia per l'olandese Roy. Presto però, tramite l'allenatore dei pugliesi Zdenek Zeman, Raiola mette le mani su un giovanissimo Pavel Nedved. La svolta, coronata dal passaggio del ceco alla Juve nel 2001, è arrivata. L'attico a Montecarlo - dove tuttora risiede e gestisce la sua agenzia di gestione calciatori Sportman - pure.
Nel consueto ritrovo dei lancieri dell'Ajax, il Palladium Bar di Amsterdam, il poliglotta Mino - padroneggia sei lingue, l'italiano è quella, per sua ammissione, «che parla peggio» - accoglie sotto la sua chioccia la sua futura fortuna. Lo juventino Grygera, la meteora romanista Mido, il terzino dell'Inter Maxwell e, soprattutto, quel geniaccio di Zlatan Ibrahimovic. Che in Olanda, a suon di gol e numeri di alta scuola, viene presto paragonato a Van Basten ed accostato ai top team europei.
Proprio tramite lo svedese, Raiola comincia a tessere l'arazzo che lo legherà a Luciano Moggi, conosciuto, si dice, proprio in uno dei ristoranti di famiglia. Leggendarie le trattative per portare Ibra a Torino, rivelate dalle intercettazioni dell'inchiesta Calciopoli. Zlatan vuole andar via dall'Ajax. La Juve è interessata, ma ci sono anche Roma, Lione e Monaco. «Se entro una settimana questo non è alla Juventus sono c... tuoi» dice Moggi a Raiola a metà 2004, «tu e Ibra continuate a fare la guerra, non mandarlo ad allenarsi. Il Lione e il Monaco offrono 20 milioni? Ibrahimovic viene alla Juve per 12 milioni, a questo ci devi pensare tu». Risponde Raiola: «Domani tengo il giocatore a casa tutto il giorno, all'allenamento non si presenta. Io, poi, ho un appuntamento con i dirigenti dell'Ajax a mezzogiorno, ma mi presento alle due». Dopo poche settimane, Zlatan andrà alla Juve per poco meno di venti milioni, con gli olandesi che ne chiedevano trenta. Complice uno strano litigio tra lo svedese e il condottiero dei lancieri Van Der Vaart (oggi espatriato al Real). Si dice che l'attaccante avesse preteso la sua fascia di capitano per rimanere.
All'arrivo di Ibra a Torino nell'agosto 2004, ci si chiede quale potrà essere la convivenza tra il nuovo acquisto e i totem Del Piero e Trezeguet (che, tramite lo stesso Raiola, Moggi aveva tentato di svendere a prezzi ragguardevoli al Real di Florentino Pérez). Il procuratore è laconico: « Se Zlatan è venuto in Italia, lo ha fatto per giocare». Punto.
E sarà così. Ibrahimovic gioca sempre, a scapito del capitano juventino, segna, sazia le folle di funambolismi improbabili per un sarchiapone della sua stazza. Ma il matrimonio con la Vecchia Signora si rompe presto. Addirittura 5 mesi prima di Calciopoli, come ha rivelato successivamente lo stesso procuratore. Gennaio 2006, Ibra vuole andare via. Moggi chiede a Raiola di procurarsi da qualche club la stessa cifra della vendita di Zidane (140 miliardi di lire) per sbarazzarsi dello svedese. Non ci sarà tempo. Scoppia lo scandalo, Ibra e Raiola puntano i piedi, la nuova società bianconera di Cobolli, Secco e Blanc fa di tutto per trattenere il fuoriclasse, ma non può nulla. Zlatan fugge all'Inter per una ventina di milioni di euro. Meglio di niente. Perché, come rivelato sempre da Mino, con Calciopoli, se avesse voluto, «Ibra avrebbe rescisso il contratto e sarebbe andato al Real Madrid a parametro zero». Oggi la storia si ripete all'Inter e le recenti dichiarazioni dello svedese - «So già dove andrò a giocare» - e del suo procuratore - «se Zlatan decide di andar via, andrà via di sicuro. Nei suoi precedenti trasferimenti è stato il giocatore a imporre la sua volontà» - sono conferme lapalissiane.
Ma lo svedese, che secondo il suo procuratore «vale più di Kakà e Cristiano Ronaldo messi insieme», non è il solo scossone del terromoto Raiola. Il terzino Maxwell, finito nel dimenticatoio di Mourinho dopo l'esplosione del «predestinato» (Lippi dixit) Santon, è un'altra spina nel fianco per i nerazzurri. E per un suo giocatore Raiola non si ferma davanti a nulla, neanche davanti a Zlatan: «Se non ti chiami Ibra, all'Inter con Mourinho sei finito» ha detto per difendere Maxwell. Tanto che avrebbe già offerto il brasiliano ai cugini del Milan, per raggelare ancora di più i rapporti tra le due squadre milanesi, già molto freddi dal caso Vieri e da quando lo stesso Ibrahimovic e Raiola scelsero il trasferimento all'Inter nel 2006, nonostante l'accordo con i rossoneri fosse praticamente concluso. Ciliegina sulla torta le frasi sul milanista Gattuso in occasione della vittoria del Pallone d'Oro di Pavel Nedved: «Lo dedichiamo a lui, che lo non vincerebbe nemmeno con tutti gli sponsor del mondo. Al massimo, gli daranno il pallone di piombo come peggiore calciatore italiano».
Tutto questo è Raiola. Mai (o quasi) fidarsi del "domatore di leoni" di Haarlem (come si definisce lui stesso). Parlare in maniera obliqua - vedi Ibra che «rimane al 99,9% all'Inter, come Mourinho» -, sedersi ad un tavolo e risucchiare quanto più denaro e diritti d'immagine alle società è il suo mestiere. Ama da matti il rischio nel gioco al rialzo economico e nella sfrontatezza nei confronti dei datori di lavoro del suo assistito. Altrimenti Ibra difficilmente godrebbe dell'ingaggio calcistico più alto del pianeta (circa 12 milioni di euro all'anno, due in più del neomadridista Kakà), nonostante la sua costante irrequietezza nerazzurra. Senza contare le incursioni in trattative non propriamente sue. Tra alti - l'ammutinamento romanista di Emerson per farlo firmare con la Juve - e bassi - il mancato convincimento dell'altro giallorosso Mancini a trasferirsi a Torino. Perché nel calcio di oggi comandano i procuratori come Raiola, Bronzetti, Morabito. Nel calcio di oggi ambasciator porta pena. Tanta pena.

Antonello Guerrera

da Il Riformista, 14/06/2009

Friday, June 12, 2009

Libri online, gli Usa indagano sul colosso Google




















A volte neanche essere a strett
o contatto con l'uomo più potente della Terra rende la vita più facile. Il Ministero della Giustizia americano, infatti, ha formalmente avviato un'indagine sull'accordo tra Google, editori e associazioni di scrittori americani, stipulato lo scorso anno, per scannerizzare 15 milioni di libri dalle biblioteche Usa e metterli a disposizione degli utenti su Internet. Una rivoluzione digitale che, con l'avvento dell'E-Book, sta mettendo piede anche nel mondo letterario, dopo aver modificato corposamente le strategie di mercato di cinema e musica. Ma che ha fatto drizzare le orecchie dell'Antitrust Usa. E gli strettissimi rapporti tra il colosso californiano e la Casa Bianca non sono bastati per evitare l'inchiesta. Nonostante l'amministratore delegato di Google Eric Schmidt sia consigliere personale di Barack Obama, nonostante il Presidente sia stato eletto anche grazie alla risonanza avuta su Youtube (gruppo Google). E nonostante, proprio in questi giorni, Andrew McLaughlin sia stato solo l'ultimo dirigente del motore di ricerca più famoso del mondo ad entrare nello staff della Casa Bianca dopo Katie Jacobs Staunton, Craig Mundie e, ovviamente, lo stesso Schmidt.
Già in maggio, tuttavia, da alcune fonti si era appreso come il Dipartimento di Giustizia si stesse apprestando ad una mossa simile. L'amministrazione Obama ha avviato le procedure del cosiddetto Cid (Civil Investigative Demands) nei confronti di Google, editori ed autori coinvolti nel patto stipulato che, in queste condizioni, in futuro potrebbe subire uno stop dall'Antitrust. Il motivo scatenante dell'inchiesta sarebbe il tentativo del colosso californiano di monopolizzare la digitalizzazione dei libri. Dal 2004, infatti, Google ha messo gli occhi su saggi, enciclopedie e romanzi, cominciando a scannerizzare su larga scala dalle biblioteche americane, appellandosi al principio statunitense dell'"uso giusto" - un po' come ha fatto l'artista Fairey del ritratto di Obama Hope, ricavato da una foto dell'Ap. Ma la protesta di autori ed editori per violazione delle regole di copyright è sfociata, un anno dopo, in una class action che ha estorto a Google l'impegno di devolvere il 63% dei proventi della messa online dei libri ai titolari dei diritti delle opere e 125 milioni di dollari per chiudere la questione giudiziaria.
Ma questo patto (che deve essere ancora ratificato dalla giustizia americana) non ha azzerato le polemiche su altri aspetti oscuri della faccenda. Innanzitutto, gli autori coinvolti nella digitalizzazione di Google Books possono sì richiedere formalmente di rinunciare alla messa online della propria opera. Ma se non lo faranno entro il 4 settembre - la deadline, originariamente fissata per il 5 maggio, è stata ritardata dalla Corte Federale di New York - perderanno i diritti digitali sulla loro opera. E poi c'è il problema dei libri non protetti da copyright, che verrebbero adottati in massa da Google Books. In questo modo la società californiana potrebbe porre una pietra miliare per il monopolio dei libri su Internet. Senza contare che un'importante quantità di volumi non americani, ma presenti nelle librerie Usa, è stata già scannerizzata da Google Books senza il previo consenso dei detentori dei diritti. Di qui le recenti proteste, anche governative e supportate dall'annuncio di un'inchiesta della Commissione Europea, di Francia, Gran Bretagna e Germania. Proprio gli autori tedeschi hanno lanciato il cosiddetto "Appello di Heidelberg", per denunciare il furto di proprietà intellettuale ai loro danni.
Da parte sua Google, tramite il Ceo Schmidt e il responsabile degli affari legali dell'azienda David Drummond, ha respinto le accuse e ha semplicemente dichiarato che il gruppo è disposto «ad essere sottoposto ad ispezioni, quale che sia il governo» e che farà di tutto per fare luce sulla vicenda. Tuttavia, non è la prima volta che Google viene accusata di monopolio in diversi ambiti del mercato mondiale. La stessa Microsoft di Bill Gates, già multata una volta dall'Antitrust Ue, sta ora soffiando sul fuoco per spingere gli organi di controllo a scrutinare i metodi con cui opera il colosso della Rete. Senza contare le polemiche sulla supremazia degli annunci pubblicitari sul Web da parte di Google, ultima quella correlata al "copia-incolla" dei flash di agenzia che ha fatto infuriare l'Ap. La stessa amministrazione Bush nel 2008, del resto, aveva già minacciato di bloccare Schmidt e compagni nel caso in cui Google avesse stretto un accordo con Yahoo per la pubblicità.
La digitalizzazione di milioni di libri per soddisfare la sete di sapere degli internauti di tutto il mondo avrebbe i suoi indubbi ed eruditi lati positivi. Ma, ancora una volta, la superpotenza Internet ha messo spalle al muro i produttori di cultura mondiali di musica, cinema, e ora anche libri. Che spesso non sanno che pesci prendere, tra censura e libero sapere. Mentre in Francia l'agognata legge antipirateria (quella della revoca di Internet in caso di download casalinghi illegali) è stata dichiarata anticostituzionale, Schwarzenegger in California chiede di digitalizzare in massa i libri scolastici e in Svezia i pirati informatici hanno appena ottenuto un seggio nel Parlamento Europeo. Una cosa è chiara: le battaglie legali per una chiara regolamentazione di Internet e dei suoi prodotti dureranno ancora per molto.


di Antonello Guerrera

da Il Riformista, 12/06/2009

Mumbai, Bollywood anticipa la prima condanna a morte


POLEMICHE. "Total Ten" ritrarrà l'esecuzione del 21enne Kasab, in carcere per gli attentati in India. Ma la sentenza delle sale arriverà a processo non ancora concluso.

La corsa di Bollywood
per portare sul grande schermo la mattanza degli attentati terroristici di Mumbai dello scorso novembre pare essere giunta al rush finale. E, dopo circa sette mesi, le polemiche non sono ancora finite. Già qualche mese fa, nelle ore immediatamente successive alla carneficina di 166 morti e oltre 300 feriti, era andato in scena in India lo sciacallaggio cinematografico dei produttori bollywoodiani. I quali capirono presto che non c'era tempo da perdere e registrarono ben diciotto titoli di film sulla strage terroristica alla Indian Motion Pictures Producers Association: Taj Terror, Operation Five Stars, Taj to Oberoi e così via. Uno di questi, Mumbai Operation 26/11, aveva vinto la palma di precursore del macabro, essendo stato depositato alla Indian Motion addirittura il 28 novembre, quando l'assedio da parte delle forze speciali per espugnare i due alberghi nella mani dei terroristi non era ancora finito.
Attualmente, tuttavia, il film in vantaggio per battere sul tempo tutti i concorrenti pare essere Total Ten del maestro action movie Surender Suri. Pellicola sempre descritta dai produttori bollywoodiani come un messaggio di pace rivolto ai giovanissimi terroristi affinché lascino la strada di odio e terrore intrapresa. Ciononostante, Total Ten ha già aizzato roventi polemiche prima della sua (ancora ignota) uscita. Il film, infatti, ritrae la tragica parabola omicida dell'unico presunto terrorista superstite di quei tragici giorni, oggi agli arresti, il ventunenne Mohammed Ajmal Kasab. Tutto sarebbe filato liscio, se il film non terminasse con la condanna a morte dell'accusato per impiccagione.
Abbas Kazmi, avvocato difensore del giovane Kasab ed esperto in casi giudiziari di terrorismo, ha espresso tutta la sua disapprovazione al Times in relazione alla "sentenza" del suo assistito: «Qualsiasi loro rappresentazione degli attacchi terroristici potrebbe mettere a repentaglio il processo». Infatti, mentre i produttori di Total Ten vorrebbero far arrivare la pellicola nelle sale il più presto possibile per battere la concorrenza (ossia nelle prossime settimane), la sentenza per Kasab potrebbe arrivare anche tra un anno. In questo modo, il giovane accusato diventerebbe agli occhi dell'opinione pubblica, e soprattutto dei giudici, un morto che cammina: già colpevole e fisicamente eliminato secondo il grande schermo, ancora formalmente sotto processo, invece, per la realtà e per la giustizia indiana.
Anche se i produttori di Total Ten hanno respinto le accuse, sostenendo di averlo girato sulla base delle notizie ufficiali trasmesse in tv, Majeed Memon, uno degli avvocati criminali più autorevoli d'India, ha dichiarato: «Un film del genere è da considerare indiscutibilmente iniquo». E forse, oltre che iniquo, potrebbe rappresentare una mina vagante per l'India. Il budget di Total Ten (500mila euro) è molto limitato rispetto agli altri film sugli attentati di Mumbai e nessuno dalla produzione o dalla regia ha sinora contattato la polizia indiana per appurare dettagli e informazioni sugli attentati. Una minaccia di pressappochismo non da poco in un clima di alta tensione come quello di Mumbai. Basti pensare che per trovare un avvocato a Kasab ci sono voluti cinque mesi a seguito delle minacce di estremisti hindu.
Intanto, c'è chi scommette che l'affannosa corsa al primo film sugli attentati di novembre sia pressoché inutile. «La Tv ha già sbattuto in faccia alla gente i fatti di quei giorni, dubito che gli indiani vorranno guardare la stessa cosa al cinema» ha dichiarato Mahesh Ramanathan, direttore del più grande studio di Bollywood. Vedremo. Ma, nonostante tutto, gli sforzi di Total Ten e compagni saranno molto probabilmente vani. Solo la settimana scorsa produttori e cinema multiplex indiani hanno trovato l'accordo per interrompere lo sciopero delle sale. Che per due mesi non hanno accettato nuovi film per protestare contro la ripartizione degli introiti. Conseguentemente, più di cento pellicole inedite ancora non hanno visto la luce nei cinema indiani. Quindi Total Ten e compagni dovranno mettersi necessariamente in fila. Ed aspettare.


Antonello Guerrera

da Il Riformista, 11/06/2009

Da Kabul con amore


Prossima fermata Afghanistan. Non c'è ancora l'ufficialità, ma sembra che (almeno) parte del prossimo capitolo della saga di James Bond sarà ambientato nella provincia di Helmand, nel sud del paese asiatico, dopo che gli autori della pellicola si sono rivolti all'ambasciata britannica di Kabul prima di cominciare a girare. I diplomatici della Corona hanno sinora sempre smentito i contatti. Ma, in realtà, la cosa pare essere abbastanza realistica dopo che gli stessi autori di Bond hanno più volte chiesto la consulenza di un membro del Foreign Office britannico (Fco) in Afghanistan che, successivamente, ha lasciato Kabul e il suo incarico.
La scelta della provincia di Helmand, ad ogni modo, sarebbe abbastanza singolare. Di competenza delle truppe della Regina, la zona è considerata l'epicentro focale del business da 4 miliardi di dollari della droga afgana, che finanzia i narcotrafficanti del luogo. Le milizie britanniche, almeno sinora, hanno avuto poco successo in un turbine di illegalità e capillare corruzione.
Oltremanica già sono fiorite battute di amara ironia quali: «Solo Bond può migliorare la situazione laggiù». Sarà. Ma comunque per lo 007 non sarà una prima volta in Afghanistan, bensì un semplice ritorno. Già nel 1987, infatti, nel quindicesimo capitolo "Zona Pericolo" della saga, l'agente gallese Timothy Dalton, alla sua prima "bondiana", era giunto a Kabul, imprigionato in un campo russo e alleato dei mujaheddin contro i sovietici.

Antonello Guerrera

da Il Riformista, 11/06/09

Sunday, June 7, 2009

Irlanda raggiunta in Bulgaria. E l'Italia si frega le mani


La squadra del Trap, priva di diversi uomini importanti, è bloccata sull'1-1 a Sofia. Reti di Dunne e Telkiyski nel primo tempo. L'Eire consolida il secondo posto, ma gli azzurri sono primi nel gruppo 8 con un punto in più e una partita in meno. 2-2 tra Cipro e Montenegro


SOFIA (Bulgaria), 6 giugno 2009 - Forse il primo posto è definitivamente andato. Ma almeno l’Irlanda di Giovanni Trapattoni impatta 1-1 in Bulgaria e la porta di servizio per Sudafrica 2010 è più vicina. Un buon risultato, visto che a Sofia l’Irlanda era senza diversi pezzi pregiati: McShane, Steven Reid e l’ariete Doyle out, McGeady, non al meglio, in panchina, mentre Given, Dunne, Foley e il capitano Keane si erano allenati in settimana ad intermittenza.

DUNNE GOL — La Bulgaria, invece, parte subito spavalda con il tridente Berbatov, Bojinov (decisamente lontano dai fasti migliori) e la freccia Petrov a sinistra, che costringe il Trap a scalare O’Shea sulla fascia. Ma, nonostante tutto, l’Irlanda punge subito la statica difesa avversaria e impegna per due volte ma senza troppa convinzione Ivankov nei primi 5 minuti, con Hunt di testa e Foley da fuori. L’Eire, vittima della cronica mancanza di un regista puro, attacca a folate e concede il possesso palla agli avversari. Che però, a parte due conclusioni approssimative di Berbatov e Petrov, non trovano spazi e sono distratti in difesa. Tanto che se rischiano grosso sul solissimo Keane, che, spalle alla porta nell’area piccola, cicca la sponda del colosso Dunne, al 24’ vanno sotto: su un calcio di punizione perfetto di Hunt, ancora Dunne, completamente dimenticato in piena area, insacca un siluro di testa imparabile per Ivankov. Un 1-0 pesantissimo, con Tardelli che in panchina sbotta un urlo Mundial a Trapattoni.

Telkiyski, autore del pareggio bulgaro. Reuters
Telkiyski, autore del pareggio bulgaro. Reuters

K. FACTOR — Ma la gioia dura solo pochi minuti. Perché al 29’ (ri)entra in gioco il fattore Kilbane. Già autore dell’autogol all’andata che costò il pareggio all’Irlanda, il terzino sinistro del Trap si addormenta su un lancio di 60 metri dalla difesa bulgara e Given non può nulla su Telkiyski che, liberissimo, lo infilza per l’1-1 e per la gioia dei tifosi di casa. Purtroppo si vedono anche falò sugli spalti e vergognose croci celtiche. L’Irlanda accusa il colpo e va alle corde. Ma, per fortuna di Trap e ciurma, i padroni di casa raccolgono poco. Anche perché i vivacissimi Berbatov e Petrov sono molto fumo e pochissimo arrosto. E nel fortino gaelico il generale Dunne è monumentale.

KEANE FLOP — Il secondo tempo parte speculare al primo. Bulgaria in avanti e un’Irlanda accorta ma troppo schiacciata in difesa. Al 57’ Berbatov viene smarcato in piena area da Stilian Petrov, ma manca incredibilmente l’aggancio davanti ad un incredulo Given. Poi un missile di Stoyanov da 35 metri sibila sulla traversa dei verdi. Mentre l’Irlanda, con Keane in giornata no, è sotto naftalina. Allora Trapattoni, generalmente restio ai cambi, fa fuori il suo capitano per Best, butta nella mischia McGeady per un ordinato Hunt e sacrifica l’infortunato O’Shea per Kelly.

Contrasto Aloneftis-Pavicevic in Cipro-Montenegro. Ap
Contrasto Aloneftis-Pavicevic in Cipro-Montenegro. Ap

MATCH POINT — Anche il collega Stolinov fa tre cambi, inserendo Dimitrov, Makriev e Georgiev. Ma i nuovi entrati non sortiscono alcun effetto. Forse per la stanchezza di fine stagione, col passare dei minuti le due squadre sono sempre più apatiche. Almeno sino al 90’, quando il fresco McGeady fallisce il match-point sparando di pochissimo a lato di Ivankov, dopo aver dribblato mezza difesa bulgara. Ma l’Irlanda di questa sera una vittoria in extremis non l’avrebbe meritata. E un pareggio a Sofia è comunque oro colato.

CIPRO-MONTENEGRO — I ciprioti buttano via una vittoria che sembrava scontata e nel finale si fanno rimontare due reti dal Montenegro. Apre le marcature Kostantinou al 13', poi in chiusura di primo tempo il rigore di Michael vale il 2-0. Ma nella ripresa si scatena Damjanovic, che tra il 65' e il 77' segna la doppietta che fissa il risultato finale.

Antonello Guerrera da La Gazzetta dello Sport.it, 06/06/09

Saturday, June 6, 2009

65 vite illustri in un guscio di tartaruga


La bellezza di un libro risiede nella densità emozionale e nel fascino intellettuale della sua semplicità, grazie al gap positivo tra la sua preparazione e la confezione finale. Se la prima è mastodontica, accademica, impegnativa, e la seconda è godibile, scorrevole e, soprattutto, densa di erudizione, molto probabilmente si è davanti ad un lavoro da apprezzare senza remore. Il Guscio della tartaruga - Vite più che vere di persone illustri di Silvia Ronchey (Nottetempo, 241 pp., euro 15,50) ne è un esempio evidente. L'autrice, giornalista e professoressa di filologia classica, schizza magistralmente 65 ritratti di grandi personaggi, della classicità e della modernità, con pennellate secche, precise, essenziali. Da Catullo ad Huxley, da Perrault a Zenone, da Verlaine a Pitagora, per passare a Nietzsche, Balzac, Leopardi, Virgilio, Plutarco, Rilke e così via. Al contrario di enciclopedie e Wikipedia, le biografie della Ronchey si presentano come storielle intorno al fuoco. Semplici, lineari, ma, nel contempo, di superbo spessore filologico.
Già, perché il leit motiv di Il guscio della tartaruga è proprio un tessuto di invisibili filamenti di citazioni bibliografiche, anche contrastanti, che in un paio di pagine stampano sull'immaginazione del lettore delle affascinanti vite illustri. Sul «primo dandy della storia» Petronio, ad esempio, viene montato il dubbio finale del suo epilogo proprio grazie ad un incrocio di fonti. In questo passaggio sta il grande merito dell'opera. Da una parte, l'assoluto piacere di leggere più di 60 biografie (genere per veri adepti) con interesse crescente, grazie alla sinfonia narrativa che pervade l'opera. Dall'altra, un crogiuolo di fonti apparentemente irrintracciabili che ne genera il senso: il guscio della tartaruga, ossia un ritratto per i posteri che, mediante le citazioni, ricopre di mistero e fascino il corpo dell'animale, cioè il singolo personaggio. Offrendogli così protezione e attenzione.
L'ultima apprezzabile caratteristica di questa (dis)parata di guru è che, per chi ne avesse voglia ed interesse, Il guscio della tartaruga non finisce all'ultima pagina del libro. Perché la sua impalcatura è installata sul sito Internet di Nottetempo. Dove il lettore, superato un ostacolo di tre indovinelli, verrà premiato con il fil rouge dell'opera. Chi si ferma al tomo, al contrario, rimarrà come l'Eros del Simposio platonico: «un filosofo, un po' a metà tra il sapiente e l'ignorante».

Antonello Guerrera, da Il Riformista, 06/06/09